Il suicidio sui social network: il caso di Facebook

Il suicidio sui social network: il caso di Facebook
 
Internet e, in generale, i mezzi di comunicazione, possono avere un’influenza sul suicidio di adolescenti e non, anche per quanto riguarda la possibilità di prevenire azioni di tipo suicidiario.
Ad esempio, esistono forum su internet che sono dedicati alla tematica del suicidio e che possono giocare un ruolo determinante in termini di prevenzione – anche qualora non siano gestiti direttamente da operatori della salute mentale, ma coinvolgano l’utente attraverso l’empatia, il supporto sociale ed il senso di appartenenza ad un gruppo (Baker & Fortune,2008; Eichenberg, 2008).

Facebook rappresenta uno dei più estesi social network presenti su internet, con oltre 500 milioni di iscritti in tutto il mondo. Il principale obbiettivo di Facebook è quello di tenersi in contatto con i propri amici e condividere informazioni sulla propria vita di tutti i giorni. Secondo le più recenti statistiche, ogni iscritto trascorre circa un’ora al giorno connesso a Facebook e condivide circa 130 amici (Facebook Press Room, 2010). In tutto il mondo, diversi utenti di Facebook hanno postato intenti suicidiari sulla propria pagina internet. Gli operatori di Facebook hanno cercato una soluzione a tale problema offrendo informazioni sulle possibili linee di aiuto telematiche gratuite (Facebook Help Center, 2010).  Secondo la letteratura, gli articoli dei media che trattano di suicidio hanno la tendenza a influenzare e indurre suicidi per emulazione.
Nel presente articolo viene descritto il caso di un giovane adulto che ha annunciato il proprio suicidio su Facebook, al fine di evidenziare le potenziali conseguenze in questi termini dell’utilizzo dei social media. Il caso è relativo ad un giovane di 28 anni, senza una storia di precedenti psichiatrici, di abuso di droga, di tentato suicidio o di ideazione suicidiaria, che ha postato su Facebook l’intento di togliersi la vita, specificando anche dove avrebbe messo in atto tale volontà, ma non l’orario preciso in cui lo avrebbe fatto. Un suo amico, dopo aver notato quanto scritto su Facebook, ha contattato immediatamente i suoi familiari e la polizia. Nonostante il pronto intervento dell’amico, non è stato possibile salvare il ragazzo. Dalle interviste è emerso che era stato lasciato due mesi prima dalla propria fidanzata.
Secondo la letteratura, gli articoli pubblicizzati dai media che trattano casi di suicidio tenderebbero a indurre suicidi per emulazione (Pirkis et al., 2006; Stack, 2003). Tale tendenza viene definita Werther effect, così denominata sullo spunto della novella di Goethe “I dolori del giovane Werther”. Nel caso specifico di Facebook, parrebbe che tale social media induca una variante del così detto Werther effect: coloro che hanno già una tendenza suicida, che condividono i principali fattori di rischio per il suicidio, potrebbero compiere atti di emulazione leggendo le note lasciate da altre persone sofferenti. Tuttavia, non solo Facebook è un social network che si è sviluppato recentemente, ancora in rapida crescita, ma è anche in grado di raggiungere un numero di persone più ristretto rispetto alla televisione o ad altri mezzi di comunicazione e questo potrebbe spiegare come mai il suicidio per emulazione su Facebbok sia un tema ancora poco trattato. Tuttavia, se da una parte Facebook è un mezzo di comunicazione che potrebbe talvolta giocare un ruolo nei comportamenti di suicidio per emulazione, va sottolineato come, proprio il fatto che comporti annunci immediatamente leggibili e fruibili, favorisca un intervento immediato che potrebbe salvare delle vite. L’intervento di prevenzione è realizzabile non solo a seguito della manifestazione di ideazioni suicidi arie, ma anche qualora vengano verbalizzate ansia, depressione e un tono dell’umore deflesso, andando ad agire subito su una spirale di emozioni distruttive che possono incidere sull’intenzionalità di morte[1].


[1] Suicide Announcements on Facebook, Thomas D. Ruder1, GaryM.Hatch1, Garyfalia Ampanozi1,Michael J. Thali1, and Nadja Fischer1,2Crisis 2011; Vol. 32(5): 280–282

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