Il Circuito dell’Empatia
Di Mauro Cavarra
Da cosa nasce il nostro senso d’altruismo, la nostra empatia, la nostra capacità di capire che l’altro sta soffrendo, o gioendo? Per quanto a noi sembri una funzione estremamente elementare (spesso la si definisce come una capacità talmente di base che “non si insegna”), si tratta di una funzione complessa che ha ricevuto l’interesse dei neuroscienziati soprattutto dopo la scoperta dei neuroni specchio ad opera di Giacomo Rizzolatti.
Quando compiamo un’azione si attivano certe aree del nostro cervello, fin qui niente di strano, ma la caratteristica peculiare di questi neuroni è che si attivano non solo quando l’azione si compie, ma anche quando si vede qualcun altro che la compie. È come se il nostro cervello implementasse un circuito che ci permette di riconoscere le azioni degli altri. Da questa considerazione allo studio dell’empatia il passo è breve.
Uno studio condotto da Jean Decety, Kalina Michalska e Yuko Aktsuki, dell’università di Chicago, dimostra che l’empatia ha una forte base biologica, suggerisce l’idea che la capacità di
“compatire” non sia soltanto frutto dell’ambiente sociale in cui si cresce, ma che abbia un circuito neuronale dedicato. Lo studio coinvolgeva dei bambini dai 7 ai 12 anni a cui venivano mostrate delle immagini che ritraevano scene in cui qualcuno viveva un’esperienza di dolore fisico. Questi venivano monitorati attraverso risonanza magnetica funzionale, una tecnica che consente di osservare quali aree del cervello si attivano durante lo svolgimento di un certo tipo di compito.
In questo caso l’attivazione cambiava, o meglio coinvolgeva oltre alle aree nominate in precedenza anche aree coinvolte in processi di interazione sociale, come l’amigdala che ha dimostrato un ruolo centrale in attività come il riconoscimento delle espressioni facciali di cospecifici. Si sono inoltre rilevate attivazioni del lobo frontale, la parte del cervello che è più sviluppata negli uomini rispetto agli altri mammiferi e che si suppone essere deputata a compiti complessi, come la pianificazione di progetti a lungo termine. I ricercatori ritengono che queste aree insieme ad altre costituiscano un circuito fondamentale per l’espressione di giudizi morali.
Sembra dunque che la capacità d’empatizzare non sia semplicemente qualcosa di socialmente appreso, qualcosa che si “impara” a seconda del contesto in cui si cresce, bensì di una capacità talmente importante e funzionale in ottica evoluzionistica che ha richiesto un network neurale dedicato probabilmente rintracciabile anche in altri mammiferi, visto che sistemi di mirror neurons sono stati osservati non solo nell’uomo, ma anche in alcuni primati ed in animali cosiddetti inferiori come alcune specie d’uccello.
Un ricercatore che si è soffermato su questo tipo di considerazioni è Michael Tomasello, condirettore del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia. Nel suo “Le origini culturali della cognizione umana” , si chiede come sia possibile che l’uomo in tempi così evoluzionisticamente brevi abbia raggiunto tali vette di progresso. In fondo se pensiamo alle altre specie di animali, queste non hanno acquisito gradi di sviluppo diversi da quelli che avevano quando erano ancora filogeneticamente giovani. Tomasello riconduce questa incredibile velocità di sviluppo alla creazione di una cultura, cultura intesa come elemento in grado di esercitare quello che lui chiama “Ratchet Effect”, o effetto del dente d’arresto.
Facciamo un esempio. Sappiamo bene che alcune scimmie sono in grado di utilizzare strumenti, come il celebre bastoncino per estrarre le formiche dal formicaio, o il sasso per rompere la noce. Ma qual è la differenza con gli esseri umani? Mentre ogni scimmia deve ogni volta imparare per conto suo la funzione degli oggetti, grazie alla cultura noi siamo in grado di conservare questa conoscenza transgenerazionalmente, nel tempo insomma, grazie all’insegnamento attivo. Inoltre un meccanismo di trasmissione delle conoscenze permette di mantenere le innovazioni utili e di scartare quelle meno utili, in modo da avere strumenti che diventino via via sempre più funzionali. Ecco cos’è il ratchet effect, la capacità di costruire una cultura che si evolva e che non perda nel tempo le conoscenze acquisite.
A questo punto appare lampante che perché questo avvenga sia necessaria non una semplice interazione sociale, ma una interazione di tipo collaborativo, che sarebbe impossibile senza capacità empatiche.
Un dettaglio interessante dell’esperimento è che nelle interviste condotte in seguito all’esperimento i bambini hanno dimostrato di essere consapevoli che l’azione lesiva intenzionale era in qualche modo ingiusta, ed in seguito hanno chiesto le ragioni di tale comportamento. Potrebbero queste reti neurali essere alla base di ciò che percepiamo come bene e ciò che percepiamo come male?
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