Bellezza, arte e percezione del dolore

Due spettatori nella sala di un museo d'arte rinascimentale
Nella vita di tutti i giorni parliamo spesso di sofferenza fisica e psichica, affidandoci semplicemente a quello che sappiamo grazie al senso comune, senza soffermarci ad indagare i meccanismi complessi e specifici che sono alla base di quello che chiamiamo “dolore”.
Il dolore è definibile come un’insieme di sensazioni somatiche associate ad un danno potenziale o ad un effettivo danneggiamento in atto. Il fatto che si tratti di un meccanismo difensivo basato sulle vie del sistema limbico conferisce al dolore una consistente base emozionale, ed è proprio per questo che la sua percezione risulta davvero molto soggettiva.
Le vie nervose e quelle biochimiche sono attivate dalle sensazioni dolorifiche, e coinvolte in una serie di risposte molto complesse e articolate che attivano a loro volta altre vie del sistema endocrino e del sistema immunitario.

La percezione cosciente del dolore ha luogo esclusivamente nella corteccia cerebrale, ma si tratta di una duplice elaborazione : al dolore “puro” della corteccia somestetica primaria sono aggiunte sfumature emotive di cui è responsabile la corteccia cerebrale prefrontale.
Esistono diversi tipi di dolore: quello cronico e profondo è l’unico sempre accompagnato da un intenso stato emozionale, poiché al dolore si vanno ad aggiungere grandi irrequietezza e tristezza.
 
Attorno alle esperienze di dolore si sono scritte nel tempo numerose opere, e si sono costruite nei secoli tradizioni popolari più disparate. Di recente però il dolore è diventato lo specifico oggetto di un rigoroso studio scientifico.
Un interessante volume che si propone di fornire una completa panoramica sui suoi correlati, a livello psichico ma anche neurofisiologico, è “La percezione del dolore”, di Mauro Ercolani e Laura Pasquini, entrambi medici e psicologi clinici di Bologna.
Al di là della mera spiegazione della nocicezione come fenomeno chimico e sensoriale, il libro espone il percorso multidimensionale che conduce all’etichettamento emozionale e cognitivo dell’esperienza, con grande chiarezza e immediatezza.
 
La soggettività delle esperienze di dolore arriva a livelli paradossali se consideriamo determinati meccanismi di regolazione, quali l’effetto placebo.
Un placebo è una sostanza inerte o un qualsiasi intervento, terapia o provvedimento non farmacologico (persino un consiglio potrebbe essere considerato tale), privo di efficacia terapeutica specifica, che viene impiegato per provocare effetti positivi (effetti placebo) su di una malattia o su un sintomo.
Farmaco PlaceboIl suo uso è comune in studi che si propongono di mostrare l’efficacia di nuovi farmaci: il sistema più rigoroso viene chiamato “doppio cieco”, poiché il medico e il paziente non sanno se la sostanza somministrata è il farmaco che si suppone attivo o il placebo inerte, in modo tale da non sporcare i risultati finali di efficacia.
Il placebo funziona a condizione che il cervello del soggetto sia predisposto all’azione benefica di quello che ingenuamente crede un farmaco, ma è errato considerarlo solo un effetto di suggestione. Si tratta di una risposta biochimica, ormonale e immunitaria dell’organismo a tutti gli effetti: è possibile affermarlo sulla base di analisi condotte con l’ausilio di Pet (tomografia a emissione di positroni) e fMri (risonanza magnetica funzionale).
In risposta a sostanze che crede attivamente benefiche il cervello rilascia endorfine, che costituiscono il nostro antidolorifico naturale: si tratta di sostanze oppiacee che hanno tra le altro la funzione di inibire i recettori del dolore, e quindi la percezione cosciente del dolore.

Un dato interessante è che il placebo stimola l’attività di produzione di endorfine in modo direttamente proporzionale alle aspettative dell’individuo: infatti, più egli desidera che la medicina faccia effetto, più probabile sarà che questo avvenga.

 

Anatomicamente parlando, studi del Dipartimento di Psicologia della Columbia University di New York, guidati da Tor D. Wager hanno riportato un’associazione tra risposta al placebo e ridotta attività cerebrale nelle regioni del dolore (talamo, insula e corteccia cingolata anteriore).
Nonostante queste prove sperimentali, detrattori del placebo descrivono l’effetto come una forma di ‘autosuggestione’ molto potente, che agisce grazie ad un meccanismo di rassicurazione e riduzione dell’ansia responsabile, almeno in parte, della percezione del dolore (effettivamente i soggetti più ansiosi hanno una tolleranza al dolore minore rispetto ai non ansiosi). Platone stesso nell’antica Grecia disse: “la menzogna non e’ utile agli dei, ma utile agli uomini come farmaco”.
 
La “questione placebo” solleva molte domande a livello etico ( alcuni criticano l’idea di, anche a fin di bene, ingannare il paziente) e scientifico ( quali sono le reali possibilità di fare del bene, curare e guarire con l’impiego di questo metodo).
In realtà secondo alcune fonti l’uso di placebo sarebbe molto diffuso: una indagine svolta su oltre 200 medici della zona di Chicago ha messo in evidenza come quasi il 45% dei medici avesse prescritto un placebo almeno una volta durante la sua carriera (dalle pillole di zucchero, a supplementi alimentari o vitamine varie).
 
Un interessante caso di effetto di manipolazione della percezione del dolore è quello rilevato da ricercatori dell’Università di Bari: secondo i risultati del loro studio, il valore estetico di un’opera d’arte può influenzare in modo importante e inaspettato la percezione del dolore.
L’ingegnoso esperimento condotto dal gruppo di neurologi, coordinati da Marina De Tommaso, ha portato alla pubblicazione di un articolo dal nome “The agony and the ecstasy” sulla rivista «Consciousness and Cognition», e mostra come il ben noto valore estetico di alcuni celebri quadri possa influenzare la soglia del dolore: la bellezza di un’opera d’arte, in poche parole, avrebbe un forte effetto antalgico.
Ecco come la De Tommaso descrive la procedura sperimentale: “Abbiamo chiesto ad alcuni giovani laureati della Facoltà di medicina dell’Università Bari di osservare sul monitor di un pc una successione di 300 famosi dipinti – realizzati da Botticelli, Leonardo, Van Gogh, Klimt e molti altri – e altrettante figure geometriche, e di attribuire a ciascuno un giudizio estetico usando un’apposita scala. In particolare si chiedeva ai volontari di scegliere le 20 opere ritenute più belle e le 20 più sgradevoli. Ampio suffragio hanno ricevuto La Primavera del Botticelli e Le Ballerine di Degas; tra le meno gradite invece risultavano L’urlo di Munch, Il bacio di Klimt e l’ultimo Picasso. La prova è stata poi ripetuta applicando alcuni elettrodi sul cuoio capelluto dei volontari, per registrare un elettroencefalogramma (Eeg) mentre le immagini venivano giudicate. In una fase successiva era prevista infine l’introduzione di una variabile, ossia una lieve stimolazione dolorosa su un polpastrello, dapprima acuta e poi applicata in modo costante. Risultato: durante l’osservazione di immagini artistiche già in precedenza apprezzate, la percezione del dolore si riduceva e anche la registrazione dell’Eeg si modificava seguendo una dinamica associata a una sorta di «anestesia» cerebrale.”
Secondo altre fonti, tuttavia, sarebbero da prendere con le pinze i risultati di questo studio.

Si vuol forse dire, ironizzano giornalisti del «New Scientist», che la bruttezza possa allora essere capace di provocare dolore fisico?

Sonia Pasquinelli

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