Commento all’articolo “Salute e Internet: il 45% degli italiani fa autodiagnosi.”

Commento all’articolo “Salute e Internet: il 45% degli italiani fa autodiagnosi.” 
Vero è che l’intento primario della Bupa Health Pulse nella realizzazione della ricerca è stato di identificare la potenza, l’importanza soprattutto la diffusione di Internet quale strumento di informazione nell’ambito della salute, tuttavia i dati che emergono assumono una valenza allarmante, soprattutto in merito alla questione dell’autodiagnosi operata dal 45% degli italiani che usa Internet per informarsi su questioni “di salute”.
Molto spesso Internet è una fonte molto importante da cui attingere informazioni, allo stesso tempo tale fonte è troppo spesso (e soprattutto all’interno di alcuni ambiti come la salute) poco controllata. Il risultato è che sempre più spesso l’autodiagnosi porta a veri e propri disastri: pazienti che si autodiagnosticano e –soprattutto- auto-convincono della propria diagnosi sono sempre più frequenti all’interno degli studi dei professionisti della salute, e davanti a convinzioni così radicate (benché infondate) una vera diagnosi diviene un processo lungo e difficoltoso. Quello che si verifica spesso in questi casi è la cosiddetta “profezia che si autoadempie”, ossia –paradossalmente- la convinzione di avere una determinata patologia (mentale) può favorire l’insorgenza dei relativi sintomi, rinforzando la (errata) “diagnosi” inziale.
Quello dell’informazione è innegabilmente un diritto insindacabile, ma l’autodiagnosi è qualcosa –oltre che personalmente errato- assolutamente dannoso per la salute.
La professionalità sancita da lauree, master, seminari, approfondimenti, specializzazioni, ecc. ha lo scopo di fornire all’utenza finale (leggi i pazienti) una persona dotata di competenze specifiche, grazie alle quali tale professionista può essere in grado non solo di diagnosticare, ma anche di strutturare un processo di cura.
L’autodiagnosi, al contrario, fonda le sue basi sul reperimento di informazioni che possono essere –nella migliore delle ipotesi- incomplete (se non addirittura sbagliate), costituendo quindi una vera e propria minaccia per la persona che si cimenta in tale impresa.
Volendo ben vedere la “pratica” dell’autodiagnosi poco si discosta dall’esercizio abusivo della professione; l’unica differenza è che tale esercizio non viene messo a disposizione di un’utenza, ma svolto a discapito di sé stessi.
Paradossalmente, nelle benevoli intenzioni che possono esservi dietro al tentativo di autodiagnosticarsi una qualche patologia (ovvero il trovare un nome, e poi una eventuale cura al proprio disagio al fine di alleviarlo/ eliminarlo) si può incorrere nel peggiore dei danni che una persona potrebbe creare a sé stessa.
A pazienti che giungono in osservazione con una diagnosi già ben auto-formulata (di cui spesso non conoscono nemmeno il significato) grazie all’ausilio di Internet, l’obiezione che mi capita spesso di muovere è: “Lei si farebbe visitare da una persona ben sapendo che questi non possiede le competenze specifiche per fornirLe una diagnosi?”.
In questo senso il “fai da te” può essere utile (ed economico) in talune situazioni, in altre –come nell’ambito della salute- certamente economico, ma potenzialmente dannoso. E la salute, si sa, non ha prezzo.
Dott. Gianluca Franciosi

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